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Nella Roma del 1800 il digiuno della Quaresima era molto rigoroso e rispettato (d’altronde, fino al 1870, la città era la capitale dello Stato Pontificio).

Le pietanze tipiche di questo periodo di astinenza erano a base di ceci e baccalà; per dolce, a compensare le privazioni alimentari, venne concessa ai Romani la possibilità di gustare i deliziosi maritozzi “quaresimali”, dolci tipici di pasta lievitata, farcita con zucchero, uvetta, pinoli e canditi; i maritozzi “semplici” erano diversi,  avevano meno

ingredienti ed erano meno cotti. In quei tempi questo dolce era molto più grande di quello che si trova oggi,  spesso farcito di panna montata, nei bar della Capitale.

Le origini del maritozzo risalgono all’antica Roma; nei tempi successivi, il primo venerdì di marzo i giovanotti li offrivano, guarniti di delicati disegni di zucchero, alle loro fidanzate e spesso vi nascondevano all’interno un oggettino d’oro o un anello; le ragazze chiamavano i loro spasimanti con il popolare termine “maritozzo”, un diminutivo di “marito”, e così l’appellativo è passato ad indicare il dolce offerto.

Per la festa del 19 marzo, che spesso cade nel periodo della Quaresima (non era ancora la Festa del Papà, ma solo di San Giuseppe), la tradizione culinaria romana prevedeva il consumo di frittelle e di bignè alla crema, fritti all’aperto in enormi padelle, dai “friggitori”; l’usanza di preparare questi dolci è tuttora ben radicata nell’Italia Centrale.

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